Ormai è risaputo: durante gli ultimi anni, soprattutto nel campo della moda, primeggiano i termini “Cambiamento”, “digitale” e “veloce”: questo è quanto riportato dal sondaggio The State of Fashion 2019 , realizzato dalla collaborazione tra Business of Fashion e McKinsey.
Un settore, quello della moda, che sta sfiorando nuove vette, caratterizzato da una spaventosa voracità documentata da dati esorbitanti: salta all’occhio quello che indica come il consumatore medio oggi acquisti il 60% in più di capi rispetto a 15 anni fa, conservandoli solo per la metà del tempo.
Spesso vengono considerati “vecchi” dei capi indossati molto poco: si tratta di un meccanismo vorticoso e decisamente poco sostenibile in termini di risorse ambientali, che si regge sull’immediatezza degli acquisti online e sulla convenienza del fast fashion. Infatti, mentre una volta la maggior parte degli acquisti avveniva nei centri commerciali, oggi questi sono stati soppiantati da canali come Amazon, H&M e Zara.
Social network e influencer. Una grossa parte di responsabilità può essere attribuita alla tecnologia e ai social media, che giocano un ruolo fondamentale sui desideri dei consumatori.
Questo perché diffondono innumerevoli tendenze che si esauriscono rapidamente: grazie al meccanismo proprio della loro natura, diffondono i trend lanciati dalle influencer anziché appoggiare le proposte stagionali degli stilisti.
Inoltre colpiscono un utente sempre più impaziente di comprare immediatamente ciò che vede, viziato da tecnologie con le quali si aspetta di avere tutto subito e al miglior prezzo. Tanto che, sempre secondo The State of Fashion 2019, quella definita “mobile obsessed” si è rivelata la tendenza più rilevante tra quelle predette per il 2018. Una bella sfida per le aziende, la cui rapidità di risposta alla richiesta di mercato è diventata un punto fondamentale della loro sopravvivenza; ma soprattutto un grosso scoglio per gli equilibri del pianeta, minacciato da una moda “usa e getta”, dettata dall’acquisto impulsivo, che contribuisce largamente all’inquinamento globale.
Di fatto, se i prezzi dei beni si abbassano sempre di più, è sempre più salato il conto che presentiamo all’ambiente. Anche solo lavando i vestiti, ogni anno vengono rilasciati nell’oceano moltissime microfibre e la tintura dei tessuti è la seconda causa di inquinamento dell’acqua sul pianeta.
Il ruolo dei giovani
Se la mania dell’acquisto affligge soprattutto i giovani consumatori, però, è anche vero che le nuove generazioni si dimostrano sempre più sensibili alle tematiche sociali e ambientali e molti ritengono che le aziende debbano dimostrarsi responsabili su questi fronti. Una tendenza che, allo stesso tempo, li vede “protettori e distruttori” delle sorti del pianeta, e che influenza non poco il mercato, dal momento che hanno un potere d’acquisto di circa il 40% del mercato globale.
Dunque, oggi più che mai è fondamentale prestare attenzione sul modo in cui si spendono soldi in un canale. The State of Fashion 2019 riporta che due terzi dei consumatori mondiali sostituirebbero, eviterebbero o boicotterebbero i brand che fondano il loro business su posizioni controverse.
“In futuro, etica ed estetica saranno inscindibili. Un prodotto non potrà più essere considerato solo per fattori come manodopera, creatività e heritage: dobbiamo arricchirlo di valori ed emozioni. Deve trasmettere messaggi significativi.” ha dichiarato Cédric Charbit, Chief Executive di Balenciaga, spiegando il nuovo modo con cui le aziende dovranno approcciarsi al pubblico. “Un fattore fondamentale per il business è coinvolgere l’audience. Non si tratta più di rivolgersi ai propri clienti ma piuttosto a tutte le persone che si possono raggiungere digitalmente, ad esempio attraverso i social media, per creare una comunità che condivida idee e principi”.
Trasparenza. Su questa linea di principio, “trasparenza” è diventata una delle parole chiave verso cui dovrebbe virare il sistema-moda. È giunto il momento per le aziende di essere limpide e di comunicare apertamente il maggior numero di informazioni che riguardano loro e la filiera produttiva che fa loro seguito. I dati dimostrano che i consumatori vogliono sostenere i brand che “agiscono bene”, con il 66% disposto a pagare di più per beni riconosciuti sostenibili.
Tuttavia, per la moda questo è un obiettivo ancora lontano. Primo, perché l’aura di mistero che avvolge la maggior parte delle aziende è sempre stata vista come un vantaggio per impedire ai competitor di copiare le idee e di rivolgersi agli stessi produttori agli stessi prezzi; segreti commerciali, informazioni riservate e privacy sono il pane delle aziende.
Secondo, perché l’industria della moda si basa su una catena altamente frammentata, anche dai confini geografici. Questo perché un grande numero di retailer non possiede manifatture proprie e si appoggia a terzi che spesso e volentieri subappaltano a loro volta.
Nonostante le difficoltà, però, sono diversi i brand che hanno già mosso i primi passi verso la trasparenza.
Ad esempio Stella McCartney, la designer vegetariana che fin dal ’97, anno di creazione dell’omonimo brand, ha bandito pelle e pellicce per realizzarne uno 100% eco-friendly: usa solo cashmere rigenerato, fibre di viscosa provenienti da foreste sostenibili e cotone organico.
Per quanto sia lecito chiedersi se il settore del fast fashion possa dichiararsi “sostenibile” senza andare incontro a una contraddizione di termini, anche un brand come Reformation ha optato per la chiarezza, garantendo determinati standard qualitativi attraverso la “RefScale”: una metodologia che misura l’impatto ambientale di ciascun capo venduto quantificando le emissioni di CO2 e i galloni d’acqua utilizzati per la sua realizzazione. Stesso intento di limpidezza per H&M che nel 2017 ha creato Arket, il marchio che di ogni capo riporta il luogo di produzione, con tanto di foto della manifattura e ha lanciato da poco la linea “Conscious Collection”, realizzata con metodi sostenibili o utilizzando materiali provenienti da fonti sostenibili. Ma il colosso svedese non si è fermato qui, e ha dichiarato che entro il 2030 tutto il gruppo H&M userà solo materiali 100% riciclati o altre risorse totalmente sostenibili.
Economia circolare
Purtroppo però, non tutte le fibre e tessuti possono essere riciclati; la scelta di abbracciare un’economia circolare sembra, in effetti, l’unica vera soluzione per contrastare l’inquinamento ambientale, ma sostenerla significa stravolgere radicalmente l’intero sistema produttivo. Ovvero, diventa necessario pensare seriamente al ciclo di vita del prodotto, dall’eco-design all’incremento di materiale derivato da riuso e rigenerazione; significa scegliere fin dall’inizio le materie prime giuste, e richiede dialogo e cooperazione con strutture di ricerca. La strada da percorrere è lunga, ma intanto si moltiplicano le iniziative dei brand per incoraggiare i clienti a riciclare. Lo stesso H&M, come anche Intimissimi hanno già organizzato dei piani di reso per capi usati, mentre Primark ha annunciato il suo schema per il 2019.
Se questo è quello che fanno i grandi marchi, c’è però chi si muove anche nel piccolo:
un esempio virtuoso è quello di Bottega Chilometri Zero, brand il cui intero ciclo produttivo avviene tutto all’interno di un raggio di 150 km, che utilizza materiale riciclato per i propri capi, e che è totalmente trasparente nel processo di produzione.
Il ruolo dei vip. Anche i vip hanno cominciato a dare grossa importanza alla questione e a dare il buon esempio: con la Red Carpet Green Dress, una campagna di moda sostenibile concepita da Suzy Amis Cameron, si riesce proprio a coniugare moda e sostenibilità. Il suo scopo è attirare sempre più l’attenzione sull’importanza di pratiche sostenibili nella moda, sfidando i designer e gli stilisti di tutto il mondo a pensare alla moda in un contesto eco-compatibile, collaborando per vestire le star in abbigliamento etico per il tappeto rosso agli Academy Awards.
Durante l’anno, Red Carpet Green Dress si impegna con educatori, leader ambientali, designer, aziende e influenzatori nell’ambito del design sostenibile per implementare il cambiamento attraverso le catene di approvvigionamento, nelle scuole e nelle imprese.
Nel piccolo, invece, i singoli consumatori possono tornare a dare il giusto valore ai capi. Prima di tutto acquistando meno e in maniera consapevole. Poi, adottando una serie di accorgimenti: lavare a freddo, magari a mano, rammendare e riattaccare i bottoni, indossarli molto più di una volta, e avere la possibilità di rivenderli o donarli quando si avrà deciso di liberarsene definitivamente. Del resto, il settore del second hand è in crescita, fa parte dell’economia circolare, è redditizio, ed ha un impatto green importante: potrebbe diventare una vera moda.
Benedetta Bassi