Netflix, YouTube, Spotify… probabilmente avrete installato almeno una di queste tre app, o una loro alternativa, sui vostri dispositivi. Sono ormai “accessori” indispensabili alla vita di tutti i giorni, per affrontare un viaggio in macchina a tutto volume o per concedersi una pausa guardando un video. Non ci siamo però mai chiesti qual è il loro costo ambientale.
The Shift Project vuole dare una risposta a questa domanda e lo fa grazie a uno studio che analizza i nostri consumi online. Il 4% di tutte le emissioni di CO2 può essere attribuito al trasferimento di dati online e all’infrastruttura collegata. La fetta più ampia è composta dallo streaming video ad alta intensità di dati, che solo nel 2018 ha rappresentato il 60%del totale dei flussi di dati mobili mondiali, producendo oltre 300 milioni di tonnellate di CO2 (per intenderci, quanto la Spagna in un anno).
I video
Troviamo al primo posto i video on demand come quelli delle piattaforme Netflix o Amazon Prime, che compongono il 34% del traffico video, seguiti poi da quelle dedicate a video per adulti, con il 27%, e dai video di YouTube, che sono la causa del 21% del traffico. I video sui social, infine, rappresentano il 18%. Fare “bing watching” della vostra serie tv comporta quindi un’emissione di CO2 più alta di quello che potreste pensare. Dieci ore di film in HD consumano più bit e byte di tutti gli articoli di Wikipedia in inglese. Pensateci bene, quindi, la prossima volta che guarderete l’ennesimo video di un gattino intrappolato su un albero.
Partire dalla consapevolezza
The Shift Project ha creato un’estensione gratuita per Firefox, Carbonanalyser, che calcola le emissioni di CO2 generate dal nostro uso di Internet. Lo scopo è di creare una maggiore consapevolezza dei nostri consumi online, spingendoci a usare la tecnologia in modo più cosciente e responsabile.
Non solo video
La colpa non è solo dei video, ma anche della musica. Le cassette e i vinili, nonostante siano prodotti in plastica, consumano quanto le loro controparti digitali. Migliaia di brani sono contenuti nel nostro cellulare grazie a piattaforme come Spotify e all’apparenza sarebbe una scelta più ecologica che collezionare decine di CD. All’apparenza, appunto.
La ricerca “The cost of music” dell’Università di Oslo e Glasgow, ha analizzato l’impatto ambientale delle piattaforme di streaming musicale. L’energia utilizzata per mantenere attivi i servizi sfruttano un’enorme quantità di risorse ed energia, che porta a un importante impatto sull’ambiente. Lo studio si concentra sugli Stati Uniti, dove l’uso della plastica nell’industria musicale è passato da 61 milioni di chili a 8 tra il 2000 e il 2016. Una buona notizia, se non fosse che le emissioni di gas serra sono aumentate, passando dai 240 milioni di chili del 1977 ai 136 del 1988, arrivando a 157 nel 2000. I dati per il 2016 indicano una stima che va fra i 200 e i 350 milioni di chilogrammi e si prevede un ulteriore aumento per il 2020.
E internet?
Internet consuma circa il 7% dell’energia elettrica mondiale secondo una stima di Greenpeace. La maggior parte dell’energia è consumata dai data center e dalle strutture fisiche che costituiscono la rete e permettono lo scambio di dati in tutto il mondo. Google, cercando di risparmiare energia, ha deciso di incrementare l’efficienza energetica dei suoi impianti, arrivando a un risparmio energetico anche del 50%. Alibaba, invece, ha rinunciato ai condizionatori scegliendo come metodo di raffreddamento l’utilizzo di acqua lacustre.
Quale soluzione? Niente internet?
Questi studi non hanno lo scopo di demonizzare internet e il suo uso. L’obiettivo è quello di aumentare la consapevolezza degli utenti, che spesso non si rendono conto delle conseguenze delle loro azioni online, considerandole “senza peso” rispetto a viaggiare in auto o in aereo. Ogni piccolo gesto, però, può portare a una maggiore consapevolezza del mondo che ci circonda, e soprattutto del nostro modo di rispettare l’ambiente.
Silvia Pegurri