Il nostro pianeta è invaso dalla plastica: un materiale resistente alla degradazione e difficile da smaltire, che è diventato un serio problema per gli organismi marini e terrestri.
Dalle biotecnologie, però, potrebbe arrivare una soluzione.
La plastica Pet
Il Pet, polietilene tereftalato o polietilentereftalato, fa parte della famiglia dei poliesteri ed è una resina termoplastica adatta al contatto alimentare. Inventato nel 1941 da John Rex Whinfield e James Tennant Dickson, è stato brevettato solo nel 1973 dal chimico Nathaniel Wyeth. Apprezzato per la sua facile sintesi, robustezza e durabilità, il Pet è stato lanciato in tempi brevi dopo la sua scoperta, incrementando gradualmente la sua produzione fino ad una stima per il 2020 che si attesta sulle 70 milioni di tonnellate. Uno dei maggiori vantaggi (ma anche problemi) della plastica Pet è la peculiarità di essere un materiale inerte e quindi resistente alla degradazione dell’ambiente.
Anche se il Pet ed altri polimeri sintetici sono considerati non tossici, grosse particelle e micro granuli sono duraturi e ormai onnipresenti negli habitat sia marini sia terrestri e vengono accumulati dagli organismi viventi. Ciò, inoltre, non esclude che, sebbene tali materiali di per sé non costituiscano un rischio chimico diretto, possano essere portatori di additivi e coloranti potenzialmente tossici per l’organismo.
In generale, lo smaltimento del polietilene tereftalato può essere effettuato in due modi: riciclaggio chimico e riciclaggio meccanico. Il riciclaggio chimico consiste nella depolimerizzazione della polvere del prodotto, precedentemente ricavata, che riporta il polietilene tereftalato alla materia grezza iniziale, cioè al Pta, acido purificato tereftalato, o al Dmt, dimetilene tereftalato, e Meg, monoglicole etilenico. La depolimerizzazione può essere attuata attraverso i processi biologici di glicolisi, idrolisi o metanolisi. Tutti questi procedimenti sono vantaggiosi dal punto di vista economico solo per lo smaltimento di grandi quantità di poliestere. Il risultato è però soddisfacente, poiché restituisce in prodotto di ottima qualità e non deprezzato. Il riciclaggio meccanico, invece, è più conveniente per quantità minori e restituisce prodotti di minore qualità e quindi deprezzati.
Gli sforzi di riciclaggio coprono in ogni caso solamente una frazione dei rifiuti di Pet, in quanto dipendono dall’addizione di una grande quantità di polimeri vergini con conseguente significativo dispendio energetico.
In accordo alle normative che regolano il mercato, il Pet recuperato, ad eccezione di contenitori per acque minerali e bevande analcoliche, viene quindi venduto ai produttori che lo convertono in prodotti quali tappeti, cinturini e recipienti per usi non alimentari.
La scoperta del batterio mangiaplastica
In alternativa a questi processi industriali, erano stati identificati degli enzimi biologici provenienti dal mondo batterico che possono idrolizzare il Pet a Tpa e glicole etilenico. Tuttavia l’ottimizzazione biotecnologica di questi enzimi non ha condotto ad un successo che potesse essere valutato in termini di una produzione industriale amica dell’ambiente.
Nel 2016, invece, un’equipe di scienziati giapponesi del Kyoto Institute of Technology ha scoperto e isolato il ceppo batterico Ideonella sakaiensis, che è in grado di crescere su di una pellicola Pet. Sono stati identificati, quindi, i due enzimi mangiaplastica che consentono al batterio di nutrirsi degradando il Pet, chiamati Petase e Mhetase. Da allora la ricerca è proseguita dai ricercatori dell’Università di Portsmouth nel Regno Unito in collaborazione con un’equipe americana, arrivando nell’aprile 2018 alla decodifica della struttura molecolare dei due enzimi e alla caratterizzazione 3D della stessa. Il risultato è pubblicato sulla rivista Nature Communications dall’università tedesca di Greifswald e dal centro Helmholtz di Berlino.
L’analisi al microscopio elettronico e con tecniche computazionali bioinformatiche, ha permesso di identificare alcuni punti deboli di questi enzimi, che possono quindi essere modificati per potenziare le capacità della Petasi e accelerarne l’atività. Sono in fase di studio delle varianti dei due enzimi per capire quale presenti il profilo migliore per le fasi successive di applicazione industriale.
Nonostante infatti il processo biochimico di degradazione del polimero richieda un tempo piuttosto lungo, dell’ordine delle settimane per disgregare un film plastico sottile, si ritiene che il batterio abbia potenziali utilizzi nel riciclaggio della plastica all’interno del complessivo ciclo di gestione dei rifiuti in un’ottica di economia circolare.
Francesco Novella
1 Commento
Articolo interessante per gli argomenti presentati, soprattutto la parte finale della quale non ero a conoscenza.