A Glasgow India e Australia hanno posto più di qualche “paletto” e la speranza di un’accelerata alla lotta contro il cambiamento climatico ha dovuto ridimensionarsi
Al vertice di Glasgow COP26 dedicato ai cambiamenti climatici si è discusso per due settimane di come limitare gli effetti del riscaldamento globale e il modo in cui i singoli Paesi hanno operando per ridurre le proprie emissioni nei prossimi anni. Una sfida, questa, che risulta a dir poco “cruciale” e complicata, ma necessariamente da vincere.
Ormai non c’è più tempo. In palio c’è – senza alcun eccesso di allarmismo – la stessa sopravvivenza sul nostro Pianeta Terra.
All’evento hanno partecipato i principali leader mondiali, fra cui anche il Presidente del Consiglio dei Ministri Mario Draghi, il Primo Ministro britannico Boris Johnson, padrone di casa e co-organizzatore insieme all’Italia, il presidente degli Stati Uniti Joe Biden e il primo ministro australiano Scott Morrison, fra i più attesi. Mancavano, purtroppo, altre figure di spicco come il presidente russo Vladimir Putin e il leader cinese Xi Jinping. Assenze di peso, di certo non casuali, che hanno voluto essere di per sé già un segnale. Non certo positivo.
All’inizio della conferenza il Regno Unito ha chiesto a tutti i Paesi industrializzati di adottare politiche più efficaci per riuscire effettivamente a dimezzare le proprie emissioni di CO2 entro il 2030.
Alla fine dell’evento Boris Johnson ha dichiarato che l’accordo trovato durante i colloqui sul clima della COP26 suona di fatto “la campana a lutto per l’energia a carbone”, anche se la realtà dei fatti è un po’ diversa, visto che lo stesso leader britannico ha dovuto constatare che il vertice non ha comunque fornito la “soluzione definitiva” al problema del cambiamento climatico. Anzi.
Quindi, cosa è stato ottenuto alla COP26?
Andiamo per punti. Durante l’evento di Glasgow:
- più di 100 Paesi hanno deciso di ridurre le emissioni di metano e hanno firmato un patto per porre fine alla deforestazione;
- 140 Paesi hanno concordato di rafforzare i propri obiettivi per il 2030;
- 190 Paesi hanno deciso di eliminare gradualmente l’energia dal carbone e non elargire più finanziamenti pubblici a chi utilizza o lavora o prevede l’utilizzo di questo tipo di energia. Per la prima volta nella sua storia, l’accordo della COP ha menzionato direttamente i combustibili fossili come principali responsabili di questa situazione.
Le Nazioni alla fine hanno raggiunto una sorta di “patto” ma non prima di aver consapevolmente annacquato (e non di poco) il linguaggio utilizzato nell’accordo stesso, che mira a mantenere vive le speranze di limitare il riscaldamento globale a 1,5 gradi Celsius sopra i livelli preindustriali al fine di prevenire gli effetti del catastrofico cambiamento climatico.
Un intervento dell’ultimo minuto proposto dall’India, infatti, ha comportato la sostituzione della frase “phase out” con “phase down“. Si è quindi passati dall’eliminare a ridurre gradualmente le emissioni di CO2. Un dettaglio non certo da poco. Diversi Paesi, fra cui i piccoli Stati insulari del Pacifico ovviamente fra i più a rischio a causa del progressivo innalzamento del livello dei mari, si sono detti profondamente delusi dalla modifica proposta, che di fatto sposta molto più in là nel tempo il momento in cui si sarà risolta la situazione (ammesso che si sia ancora in tempo), e contemporaneamente riduce lo “stress” che questo tipo di politica ambientale (drastica nelle intenzioni preliminari al congresso) avrebbe inevitabilmente comportato. Anche e soprattutto dal punto di vista economico-energico.
Le nazioni insulari volevano accordi più ambiziosi
I rappresentanti delle Isole Marshall, di Tuvalu, del Kenya, del Ghana e degli stessi Stati Uniti avevano chiesto accordi più ambiziosi. Così non è stato.
Iconico, in questo senso, il discorso del ministro degli Esteri di Tuvalu, Simon Kofe, che ha provocatoriamente pronunciato il suo discorso (proiettato durante la conferenza) in un video in cui era immerso nell’acqua di mare fino alle ginocchia con lo scopo di mostrare in tutta la sua evidenza e senza equivoci come le Nazioni del Pacifico fossero quelle maggiormente in pericolo a causa dei cambiamenti climatici.
Anche l’Australia ha “tirato il freno”.
Il primo ministro Scott Morrison ha confermato formalmente al vertice che l’Australia si impegnerà a raggiungere l’obiettivo di zero emissioni nette entro il 2050.
Ha anche annunciato nuovi finanziamenti, per l’ammontare di 500 milioni di dollari, a favore dei Paesi del Pacifico e del sud-est asiatico per affrontare gli effetti del cambiamento climatico, portando l’impegno economico totale dell’Australia a 2 miliardi di dollari. Una cifra considerevole, certo, anche se nel contempo Morrison ha anche annunciato nuovi obiettivi (meno stringenti rispetto a quelli immaginati alla vigilia) di riduzione delle emissioni per il 2030.
Insomma, pur mantenendo fermo l’impegno di azzeramento entro il 2050 (tanto per allora “chi vivrà vedrà”) l’Australia ha deciso di non aderire completamente alle soluzioni generali proposte.
Le proteste dei giovani
Decine di migliaia di manifestanti hanno marciato in quei giorni a Glasgow (e in tutto il mondo), chiedendo un’azione più audace alla conferenza sul clima delle Nazioni Unite.
L’attivista Greta Thunberg – che soltanto pochi giorni prima del congresso aveva accusato i potenti di tutto il mondo di promettere molto e di agire molto poco -, ha guidato la protesta “Fridays for Future” nella città scozzese.
A precisa domanda ha etichettato il summit come un vero e proprio “fallimento” e “un festival globale del greenwash del nord”. E onestamente non ci sentiamo di darle torto. Forse fallimento è eccessivo, ma di certo ci si aspettava una definitiva presa di coscienza da parte di chi ci guida che in realtà non è arrivata. Non al 100%, perlomeno.
La prossima conferenza, COP27, dovrebbe svolgersi in Egitto alla fine del 2022. Fra un anno, insomma. E chissà che i dati che saranno stati nel frattempo raccolti non inducano chi oggi è stato più “timido” delle aspettative ad invertire la rotta e dare finalmente un segnale forte e definitivo ai cittadini di tutto il mondo.
Ernesto Kieffer