Intervista ad Alessia Rotta, presidente della Commissione Ambiente Territorio e Lavori Pubblici, sull’evento che potrebbe salvare il nostro futuro.
Alessia Rotta, deputata veronese giunta alla sua seconda legislatura (eletta nel 2013 e nel 2018 nelle fila del PD), in Parlamento oggi presiede l’VIII Commissione Ambiente, Territorio e Lavori Pubblici. La incontriamo alla vigilia della sua partenza per Glasgow, dove presenzierà all’importante incontro internazionale COP26, di cui l’Italia è, insieme alla Gran Bretagna padrona di casa, co-presidente.
La COP26 è la conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici che si tiene da quasi trent’anni. Sono presenti quasi tutti i Paesi del mondo per parlare di problematiche ambientali e clima. E a proposito di clima, da quando sono iniziati questi incontri il cambiamento climatico è passato dall’essere una questione marginale a diventare una vera e propria emergenza globale. Basti pensare che dagli Accordi di Parigi del 2015 ad oggi il nostro Pianeta ha vissuto i sei anni più caldi della sua storia. Un problema che coinvolge tutti, dai Paesi in via di sviluppo a quelli più industrializzati, e la cui soluzione non solo non può più essere rimandata. Costi quel che costi.
Deputata Rotta, questa conferenza COP26 viene definita da più parti come l’ultima chance per salvare il nostro pianeta dal climate change. È proprio così?
«La situazione è davvero drammatica. Diamo solo un dato: se noi continuassimo con lo sviluppo lineare che abbiamo ora consumeremmo entro il 2050 in termini di risorse l’equivalente di tre pianeti. È chiaro che se non si interviene drasticamente entro il 2030 i cambiamenti climatici potrebbero causare oltre 250mila decessi in più per malaria, malnutrizione e via dicendo. L’inversione dev’essere immediata e affrontata con la massima urgenza».
Quali sono i principali obiettivi che ci si pone la COP26?
«Si deve trovare un’intesa tra i diversi Paesi per remare tutti nella stessa direzione. Qui, a differenza del G20 dove intervengono solo le venti nazioni più industrializzate (che, però, sono anche responsabili dell’80% delle emissioni di CO2 mondiali), possono intervenire ed esporre le proprie istanze anche i Paesi meno industrializzati e che stanno cercando di risolvere i propri problemi economici e sociali. È ovvio che se qualcuno fa uno sforzo e qualcun altro no, lo sforzo dei primi risulta vano, ma c’è anche un tema di equilibrio fra i vari Paesi e delle varie esigenze che va considerato. La situazione attuale è stata creata in massima parte da chi ha già raggiunto un benessere generale e si può capire che chi, al contrario, sta ancora inseguendo questa situazione può vedere nelle limitazioni alla carbonizzazione un ostacolo al proprio sviluppo. Vanno però trovate delle alternative».
Su cosa vi focalizzerete, dunque?
«L’importante è riuscire a raggiungere gli obiettivi entro il 2050: dobbiamo raggiungere per allora la neutralità climatica e una crescita delle temperature medie al massimo di un grado e mezzo. Che non è solo simbolico, sia chiaro, perché farebbe una enorme differenza in termini di squilibri ambientali. Vediamo quello che ad esempio succede a Venezia, inondata dall’acqua alta anche con il MOSE in funzione. Se non riduciamo questa crescita del global warming avremo sempre più ondate di calore, inondazioni, città che scompaiono, migrazioni climatiche e molto altro. Il fatto di dire stop all’alimentazione a carbone è fondamentale. In questo senso avrà un ruolo fondamentale l’Australia».
In che senso?
«L’Australia è uno dei principali esportatori di carbone, che risulta quindi anche una grande risorsa economica per quel Paese. Il governo australiano, però, è stato al patto per il clima, nonostante venga danneggiato da queste nuove risoluzioni. È un segnale importante per tutto il mondo. Alla neutralità climatica, in fondo, ognuno ci può arrivare come vuole, con il mix energetico che preferisce e in base alle risorse che ha. L’Italia, ad esempio, ha la fortuna di avere sole e vento più di altre Nazioni e su queste risorse deve spingere».
Il fatto che alla COP26 non sia presente la Cina quanto potrà pesare?
«È ovvio che se la Cina non partecipa a questo sforzo comune, visto che possiede il 70% delle centrali a carbone nel mondo, risulterà un grave danno per tutti. Noi, però, non abbiamo altra strategia se non la persuasione, per far comprendere a tutti che questa emergenza non riguarda solo una parte del mondo, ma coinvolge tutti. È un tema che potremmo definire di geopolitica climatica».
E se la persuasione non dovesse bastare?
«C’è tutta una dimensione che va dalla finanza climatica al coinvolgimento di imprese private, che porterà i mercati che non si adeguano a non avere più clienti. Inoltre gli standard che si stanno diffondendo renderanno in ogni caso antieconomico continuare sulla stessa strada di sempre. Le banche, per dire, non stanno più finanziando progetti che non tengano conto delle nuove esigenze. È tutto un mondo che sta cambiando e crediamo che chi non si adegua ora sarà costretto a farlo a breve».
Insomma, non ci saranno molte alternative…
«Oggi possiamo fare dei calcoli previsionali, ma un grande acceleratore positivo è la tecnologia. Lo sviluppo della tecnologia aiuterà ad affrontare i problemi attuali. Penso all’idrogeno, alle batterie per la mobilità elettrica e alle energie rinnovabili. Tutto questo, insieme alla dimensione della finanza climatica, contribuirà a ottenere la massima adesione».
Il presidente americano Biden ha ritrattato gran parte dei propositi “poco ambientalisti” di Trump. Basterà a rimettere gli Stati Uniti in carreggiata?
«Sicuramente è una condizione determinante. Le scelte di Biden non coinvolgono solo quello che fanno gli Stati Uniti ma anche le Nazioni su cui loro hanno particolare influenza. A maggior ragione ora che la Gran Bretagna è uscita dall’Europa e insieme proprio agli Stati Uniti e l’Australia ha creato un’alleanza particolarmente forte. Ecco, quest’asse, insieme all’Unione Europea, svolgerà un ruolo a dir poco fondamentale in futuro. Se gli Stati Uniti non fossero stati della partita, oggi, sarebbe stato gravissimo. Glasgow non sarebbe stata la stessa cosa».
L’Europa, dal canto suo, com’è messa?
«Penso al pacchetto “Fit for 55”, che propone le proposte legislative per raggiungere entro il 2030 gli obiettivi del Green Deal. In particolare, la riduzione delle emissioni di gas a effetto serra del 55% rispetto ai livelli del 1990, con l’obbiettivo di arrivare alla “carbon neutrality” per il 2050. È un provvedimento che coinvolge anche le imprese private con una serie di indicazioni su quello che si può fare o non fare. Inoltre, non vengono più elargiti sussidi per chi compie azioni ambientalmente dannose, come chi produce carburanti inquinanti, per l’agricoltura e i trasporti. Il fatto che ci siano degli standard molto rigidi per le imprese è fondamentale».
Basterà?
«Ci sono ancora questioni fondamentali da risolvere in ambito europeo. Come quello sull’approvvigionamento energetico alternativo rispetto al carbone. La Francia, ad esempio, è in prima linea sul nucleare e sull’utilizzo fossile del gas, che è sì un inquinante ma meno invasivo del carbone. In generale, però, credo che l’Europa – per la sua compattezza ma anche per le sue punte di eccellenza, come quelle dei Paesi scandinavi – possa fare qualcosa di veramente importante».
E l’Italia, copresidente della COP26?
«L’Italia ha degli asset di partenza molto positivi. Abbiamo il più alto tasso di materia circolare (riciclo, ndr) in Europa, con una forte riduzione di sprechi e di energia, e il più alto tasso di imprese green, che hanno iniziato già da tempo un nuovo processo di innovazione di prodotto. La prima cosa che ha fatto il Ministro per la Transizione Energetica Cingolani è stato puntare sull’energia rinnovabile su cui, come già detto, possiamo contare su fattori importanti. Anche l’asse che si è creato nel frattempo con Francia e Germania credo possa dare molto in quest’ottica. Lo svantaggio principale che abbiamo in Italia è in termini autorizzativi e burocratici, su cui dobbiamo lavorare molto».
Come sta operando il Governo Draghi?
«Direi bene. Si è rotto in particolare l’annoso tabù del nostro Paese che vedeva il Governo visto sempre “contro” le imprese. Non è più così. Ricordiamoci, inoltre, che senza il coinvolgimento totale dei cittadini non ci sarà mai una vera transizione. È fondamentale, infatti, il contributo di tutti. Ogni cittadino può fare la propria parte chiedendo ad esempio alla propria amministrazione, al proprio Comune, alla propria Regione interventi concreti per non passare la vita incolonnati in auto, per una nuova mobilità e per uno sviluppo sostenibile delle nostre città».
Greta Thumberg, tornata protagonista alcuni giorni fa con il suo potentissimo “bla bla bla” rivolto ai potenti, sarà a Glasgow. Come vedete questa presenza?
«Il mio collega inglese Alex Sobel ed io abbiamo un appuntamento proprio con lei e i sindacati fissato per sabato alle 15. Sappiamo anche che ci prenderemo la nostra giusta parte di “parole”. La protesta pacifica ma anche energica e severa è il “carburante pulito” per la transizione. Ogni generazione è custode della Terra. Se consegniamo ai giovani un patrimonio degradato è giusto che si arrabbino. Loro sono una sorta di acceleratore di coscienza. Ci sono state proteste giovanili in tutti i Paesi e hanno in qualche modo imposto alla politica che tornasse a parlare dei problemi della gente. In generale tutte le autorita – che siano laiche o religiose – che si sono mosse per l’ambiente rappresentano un pungolo importante».
Per finire… ci sono state molte critiche per l’arrivo dei primi ministri e presidenti con jet privati e lunghi seguiti di auto – particolarmente inquinanti – per la sicurezza. Non c’era proprio alcuna alternativa?
«È stata fatta una deroga solo in ragione dell’urgenza, anche se siamo consapevoli che non è corretto. Il fatto di aver visto il Presidente Draghi a Roma per il G20 e il giorno dopo a Glasgow giustifica in parte queste scelte. In generale, però, la pandemia e l’emergenza climatica deve aiutarci a ragionare proprio sui nostri stili di vita. Io a Glasgow andrò in aereo, ma ad esempio il mio collega inglese Sobel è venuto a Roma in treno. Durante il suo viaggio ha fatto delle tappe di lavoro, con importanti esperienze che si sono rilevate utili. In questo senso ritengo che tutti noi dovremo riconsiderare anche il nostro modo di viaggiare. Per noi e per il nostro futuro”.
Ernesto Kieffer