Il progetto “Adige, via d’acqua”, è stato presentato da poco al Lessinia Film Festival, con grande entusiasmo dei partecipanti, della critica e insignito con il Log To Green Movie Award.
Una pellicola che ci ha portato tra le onde del fiume Adige, una via una volta percorribile e ora dimenticata e ostacolata da dighe. Abbiamo intervistato il regista Alessandro Scillitani per approfondire i temi del film ma anche il progetto più in generale.
Prima di tutto, com’è nato il progetto “Adige, via d’acqua”?
Luigi Spellini del Canoa Club di Verona mi ha contattato e mi ha proposto di fare un film sul fiume, per sensibilizzare la gente e riaprire questa via d’acqua che, come la quasi totalità dei fiumi in Italia, ormai è stata dimenticata.
Ho trovato importante prestare la mia regia per un’opera con queste finalità e così ho accettato e pochi giorni dopo eravamo già in viaggio.
Ci sono state difficoltà nelle riprese a causa dell’ambientazione in cui è stato girato? (legate a trasporti, dighe, attrezzatura…)
La canoa è senza dubbio uno dei mezzi di trasporto più adatti per la ripresa. Ti permette di filmare all’altezza dell’acqua. Per me è molto importante raccogliere le immagini catturando con esse la fascinazione che provo io stesso osservando ciò che mi circonda. Certo, stare in canoa e allo stesso tempo riprendere significa affidarsi totalmente a chi conduce l’imbarcazione, c’è il rischio di ribaltarsi, di perdere quindi il girato e le attrezzature. Bisogna prestare attenzione, stare in ascolto.
Certo, poi ci sono le dighe, che sono poi il principale impedimento alla riapertura di questa meravigliosa via d’acqua. Ci sono cinque sbarramenti lungo l’Adige, e quando furono realizzati non si pensò di predisporre una via d’uscita, qualcosa che permettesse di preservare la navigazione. Anche grazie a questo film speriamo che vengano messi in atto dei piccoli lavori che rendano per lo meno più agevole superare queste dighe.
Oggi lo sbarramento si presenta davanti a te improvvisamente, e non c’è altro da fare che cercare di guadagnarsi l’uscita dal fiume tra fango e erba alta. Davvero difficile e sicuramente anche arduo da filmare!
L’uomo e la natura sono irrimediabilmente uniti da un legame, quali sono le difficoltà di trasmettere questo rapporto dietro la lente di una cinepresa?
Sì, è difficile rendere il legame tra l’uomo e la natura con la macchina da presa. Io cerco sempre di mettermi in ascolto, di preservare l’autenticità degli incontri. Perché il paesaggio si descrive attraverso le persone che trovi lungo il cammino, ma io trovo indispensabile catturare quel momento irripetibile, il primo sguardo, la prima volta che vedi un posto o ascolti le parole di una persona. Così cerco di trattenere in quelle immagini la magia della natura e del paesaggio.
Molti dei suoi lavori danno grande importanza all’ambiente che ci circonda e al rapporto delle persone con esso. Da cosa nasce questa fascinazione?

Foto di Zoltan Kovacs
La mia attrazione primaria è stata per i luoghi abbandonati. Mi chiedevo come mai posti magnifici fossero stati lasciati vuoti, a volte all’improvviso, dimenticando tra le stanze affrescate oggetti importanti, lettere, memorie.
Indagando sul perché di quegli abbandoni, mi sono imbattuto in una perdita di memoria ancora più grande. Abbiamo abbandonato e dimenticato luoghi che attraversiamo tutti i giorni. E questo oblio per me è incredibile. Non vediamo ciò che abbiamo intorno e andiamo alla ricerca dello stupore viaggiando lontano, quando invece sotto casa ci sono storie e luoghi meravigliosi da scoprire, di cui prenderci cura. Uno di questi luoghi è indubbiamente l’Adige. Un fiume che attraversa luoghi industrializzati e fortemente antropizzati, eppure sta lì, poco percorso e in grado di restituisci un rapporto di bellezza e di antico, di selvaggio e incontaminato, a due passi da casa.
Che ruolo ha il cinema nella sensibilizzazione delle persone verso temi come l’ambiente e la sua preservazione?
Ho fatto tanti documentari. Nei primi cercavo di raccogliere tutto quello che mi capitava, e spesso inevitabilmente raccoglievo l’indignazione per tutto ciò che di male ha provocato l’uomo all’ambiente.
Poi ho incontrato Paolo Rumiz. Viaggiando con lui, mi sono reso conto che è importante sì denunciare ciò che non va, ma è ancora più importante lasciarsi portare dalla corrente, descrivere ciò che ancora di bello c’è, ed è tanto.
Ecco, io ho deciso di diventare il cantore della bellezza, convinto che trasmettendola attraverso i miei montaggi, si possa spingere qualcun altro a seguire la bellezza. Credo in un cinema contagioso, che ti faccia venire voglia di alzarti dalla sedia e buttarti a rincorrere le meraviglie perdute.
Silvia Pegurri